di Gabriele Franco
La digitalizzazione estrema della società ha condotto in poco tempo a una vera “datificazione” dell’esistenza umana. Secondo Statista, solo nel 2020 sono stati creati, utilizzati e archiviati nel mondo oltre 64 zettabyte (ZB) di dati (nel 2010 erano appena 2 ZB) e si prevede che nel 2025 supereremo i 180 ZB. Per dare una dimensione tangibile a questi numeri, si stima che ci vorrebbero 250 miliardi di DVD per fare uno ZB. Del resto, sono le nostre stesse abitudini digitali a generare grandissimi volumi di informazioni; stando alle indagini di Domo, nel 2022 ogni minuto sono state lanciate quasi 6 milioni di ricerche su Google (nel 2013 erano 2 milioni), caricate 500 ore di video su YouTube (48 nel 2013) e inviate più di 231 milioni di e-mail (contro i 204 del 2013). Nulla di sorprendente se si considera che, come ha calcolato NordVPN, gli italiani trascorrono oltre trent’anni della propria vita online.
Al tempo stesso, l’iperproduzione e condivisione di dati, molto spesso di natura personale, ha innescato una crescente apprensione per la tutela della privacy. Nel 2018, pochi mesi prima dell’applicazione del nuovo regolamento europeo in materia (il GDPR), una ricerca di PHD Italia raccontava di circa sei italiani su dieci preoccupati per la propria privacy online. Dato salito all’80% secondo uno studio di GfK Sinottica del 2020. Per un’indagine di OpenText del 2022, invece, un italiano su tre non si fida del modo in cui le aziende trattano i dati. E i timori aumentano con l’inarrestabile diffusione dell’intelligenza artificiale (IA), che si nutre proprio di dati per apprendere e migliorare costantemente: dal Cisco 2021 Consumer Privacy Survey emerge che il 56% degli intervistati è preoccupato per come le aziende impiegano gli algoritmi intelligenti.
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