di Vincenzo Tiani
Il 28 aprile la Commissione europea ha pubblicato la Dichiarazione per il futuro di internet, firmata da oltre 60 Paesi come Australia, Canada, Giappone, Israele, Nuova Zelanda, Regno Unito, Senegal, Ucraina.
Di cosa si tratta?
Non un testo giuridico vincolante ma una dichiarazione di intenti per guidare l’operato di governi, imprese e associazioni, perseguendo la tutela dei diritti umani e la garanzia di un’Internet “aperta, libera, globale, interoperabile, affidabile e sicura”.
Questa Dichiarazione nasce dal fatto che sempre più Stati autoritari usano il proprio potere per limitare la libertà d’espressione bloccando o limitando l’accesso a Internet e favorendo la disinformazione nel proprio territorio e nell’opinione pubblica dei Paesi presi come bersaglio, come avvenuto sia all’estero sia in Europa durante le elezioni. In questo contesto la libertà teoricamente promessa da Internet viene gradualmente messa in pericolo da una significativa concentrazione di servizi, ormai considerati essenziali, nelle mani di poche grandi imprese. Negli ultimi anni queste stesse piattaforme non sono state in grado di arginare il fenomeno della disinformazione e dell’hate speech, tanto che, almeno in Europa, dopo un primo tentativo di autoregolamentazione con l’adozione di codici di condotta, la Commissione ha optato per un aggiornamento normativo proponendo nuove regole con il Digital Services Act, urgenza sentita anche dalla democratica Hillary Clinton che ne ha festeggiato l’adozione.
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