In queste settimane si è tornati a parlare di privacy e protezione dei dati personali come di un “ostacolo”. Il tema non è nuovo ed anzi si ripresenta ciclicamente. È chiaramente frutto di incomprensioni, a loro volta derivanti dalla non conoscenza di dinamiche relative alla libera circolazione e protezione dei dati personali, che si ritenevano essere consolidate.
La privacy come elemento burocratico, un lusso per pochi, un orpello del passato, è un disco rotto. Nel 1997 la rivista Time titolava in copertina: “Privacy is dead”. Giovanni Buttarelli, un giorno, nel 2003 me ne regalò una copia, come memento all’idiozia. Non a caso alla Iapp, la più grande associazione al mondo che raccoglie oltre 65.000 professionisti della privacy, nel cui Board of Directors ho l’onore di sedere e che rappresento in Italia, siamo soliti usare un altro slogan: “Privacy is not dead, is hiring”, per dire che la domanda nel mondo di professionisti della data protection e della data economy è in continua crescita. La verità è che la cosiddetta privacy è tirata in ballo quando si è a corto di argomenti da sbandierare su Twitter: “Di che parlo oggi? Che mi invento per racimolare qualche centinaio di mi piace in più?”.
Ma tutto ciò non deve sorprendere. Ho vissuto in prima persona la stagione in cui alla stessa Autorità Garante non si riconosceva la medesima dignità delle altre Autorità indipendenti. Ciò avveniva in vario modo: attraverso forme di finanziamento meno bilanciate e dotazioni di personale non conformi alle esigenze e alle attività che dovevano essere svolte. Addirittura gli emolumenti di funzionari e dirigenti del Garante sono da sempre e per legge più bassi del 20 % rispetto a quelli di tutte le altre Autorità. Questo lo dico non per alimentare altre polemiche, ma per fornire indici concreti di come la normativa sulla protezione dei dati abbia dovuto subire penalizzazioni e degradazioni sistematiche.
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