di Gabriele Franco
Sono passati più di tre anni da quando Tim Cook, amministratore delegato di Apple, È capitato a tutti: dopo avere svelato a un collega il nostro piatto preferito, ecco comparire sullo schermo dello smartphone proprio la pubblicità di quel succulento manicaretto. Altre volte, le parole sembrano addirittura superflue: pensiamo al nostro prossimo viaggio o capo di abbigliamento e poi lo ritroviamo sponsorizzato in un accattivante banner su Internet.
Coincidenza o spionaggio?
L’idea che le app installate su cellulari e tablet, sfruttando l’accesso al microfono, registrino tutto quello che diciamo è allarmante. Soprattutto se consideriamo che, secondo i dati di App Annie, nel 2021 erano più di 21 milioni le applicazioni disponibili e noi tutti le abbiamo usate per quasi 5 ore al giorno. Se è vero poi, come rilevava qualche tempo fa il garante della Privacy, che di media sono 80 le app spia installate su ogni smartphone, ecco sopraggiungere anche una lieve tachicardia. Peraltro, la stessa Authority ha di recente avviato un’indagine per fare luce proprio sulle cosiddette app rubadati, cioè quelle che, sfruttando l’accesso ai microfoni dei telefoni, potrebbero carpire informazioni sulle nostre vite per rivenderle poi ad altri per fare proposte commerciali.
Come se non bastasse, non sono solo i cellulari ad avere le orecchie: le nostre case sono popolate da oggetti capaci di raccogliere, comunicare e scambiare dati e informazioni. È l’Internet delle Cose. Secondo l’Osservatorio Internet of Things del Politecnico di Milano, il 46% degli italiani già possiede in casa almeno un oggetto smart. Pensiamo agli speaker come Google Home o Amazon Echo. Il riferimento non è casuale. Sulle teste dei colossi della tecnologia pendono i più diffusi sospetti di origliare le nostre vite, e proprio a Mark Zuckerberg in audizione al Congresso degli Stati Uniti per il caso Cambridge Analytica è stato chiesto se la società di Menlo Park ascoltasse le conversazioni delle persone.
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