di Rocco Panetta e Gabriele Franco
Fino a poco tempo fa, di smart working in Italia si parlava poco, e spesso in modo confuso. La pandemia, su questo fronte, ha agito da vero e proprio catalizzatore. Lo confermano i dati. Secondo le rivelazioni Eurostat, in Unione europea i lavoratori tra i 15 e 64 anni ad operare abitualmente da casa nel 2020 sono stati il 12,3% (nell’ultimo decennio erano costantemente il 5%), con l’Italia al tredicesimo posto in classifica (12,2%). Stando poi a quanto indicato dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel nostro Paese – dove il lavoro agile veniva istituito già nel 2017 con la legge n. 81 – si è passati da circa 570.000 lavoratori agili del 2019 ad oltre 6,5 milioni durante il primo lockdown (marzo 2020), con le più recenti stime che parlano di 4,38 milioni di smart workers nell’era post Covid-19.
Nondimeno, se la velocità di reazione all’imprevedibile contingenza pandemica ha portato il lavoro agile a diffondersi su larga scala, quella stessa accelerazione non ha consentito di maturare una piena consapevolezza su rischi ed opportunità di tale modalità di lavoro, soprattutto sul fronte delle tecnologie utilizzate da casa e della relativa circolazione, protezione e sicurezza dei dati, in particolar modo personali, trattati durante l’espletamento dell’attività lavorativa in modalità agile. Un aspetto cruciale che, tuttavia, è stato principalmente rincorso, nella prassi di tutti i giorni, e quasi mai anticipato, specialmente in tempo di pandemia.
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